sabato 23 novembre 2013

OK, Giancarlo ! Pour la Lettonie, j’explique.


Eh oui, en août dernier, Francine et moi avons passé quelques jours en Lettonie avec Giancarlo et Marisa. Il faut que je vous raconte, moi aussi, pourquoi ça s'est fait.

Je ne sais pas comment cette idée a surgi dans le cerveau imprévisible de Giancarlo, mais il se trouve que notre belle-fille, la femme de Fred, est lettone et ça doit certainement avoir un rapport. Certains d’entre vous se souviennent peut-être de cette réception officielle de jumelage qui avait lieu à Calusco, il y a trois ans je crois, quand Giancarlo m’a traîné sur scène pour annoncer avec lui que nous allions nous jumeler avec la Lettonie. Evidemment, il ne s’est rien passé depuis. Ce genre de projet ne s’impose pas d’emblée ; il faut du temps pour que l’idée fasse son chemin dans les esprits.

Sans attendre, nous avons cependant envisagé de remettre à l’honneur les échanges de jeunes, comme cela se faisait autrefois, au début de notre jumelage, et nous avons imaginé le scénario suivant :
- un groupe de jeunes français décolle avec Ryanair de Frankfurt-Hahn,
- un groupe de jeunes italiens part de Bergamo-Orio al Serio le même jour,
- chacun avec un ou deux accompagnateurs,
- ils se retrouvent à Riga, où ils logent ensemble dans une des auberges de jeunesse de la ville qui ne sont vraiment pas chères,
- ils mangent letton (maximum 5 euros pour un repas complet, boisson comprise),
- ils visitent la vieille ville, le quartier art nouveau, le quartier russe, les églises orthodoxes, luthériennes, anglicanes, quelques-uns des innombrables musées ; ils passent une journée à la mer, une autre en excursion le long du fleuve Daugava, une troisième dans une région de l’intérieur des terres, à Cesis, Bauska ou Ergli ; ils s'assoient aux terrasses pour écouter les orchestres différents qui y jouent chaque soir ; ils assistent aux spectacles et aux fêtes qu’on donne tout au long de l’été…
Et voilà une semaine vite passée, trop vite même !

 Mais là encore, rien ne s’est fait. Manque de volonté, c’est sûr. J’avais l’impression que nous passions pour des illuminés avec notre désir de Lettonie, désir de réveiller le vieux jumelage somnolent. Alors j'ai jeté l'éponge : « Pas la peine ! Mieux vaut renoncer à cette folie. »

Et puis tout à coup, en mai dernier, à la fin de la réunion des comités de jumelage à Calusco, Giancarlo a lancé : « Io voglio visitare la Lettonia. » Pris de court, j’ai réussi à bafouiller : « Hein ? Quoi ? »
« Marisa ed Io vogliamo vedere Riga.
- Quando ? » Je lui ai demandé.
Et Giancarlo, avec un regard terrible a dit : « Quest’ anno. In luglio, siamo liberi. »
Je regarde Francine. Elle n’hésite pas un instant : « C’est d’accord. »
Bon, en juillet, ça n’allait pas pour nous parce que nous avions prévu d’aller voir ma sœur en Auvergne, mais nous avons trouvé une date à la fin du mois d’août. Et voilà comment Giancarlo et Marisa se sont retrouvés là.

Devant la cathédrale orthodoxe

Du côté du marché central

A boire et manger letton
Enfin, ce n’est pas vraiment ça que je devais vous raconter, mais plutôt comment la Lettonie était entrée dans ma vie. Voici, en quelques mots.
En 2006, Fred faisait partie d’un groupe de saxophonistes qui représentait le Luxembourg au festival international des saxophonistes à Ljubljana, en Slovénie. Au même moment, Ilze Lejina y représentait la Lettonie avec son quartet de filles saxophonistes « [Next] ». Rencontre, coup de foudre ; Ilze vient vivre et travailler ici ; Fred va (un peu) vivre et travailler là-bas. Ils font deux enfants et de Francine et moi-même des grands-parents très heureux. Nous partons à la découverte de la Lettonie et nous en tombons immédiatement amoureux. Nous y allons maintenant chaque année et nous avons toujours autant envie de partager notre amour pour ce pays.

Alors, merci, Giancarlo, pour ton coup de folie !
Richard



OK GIANCARLO! PER QUANTO RIGUARDA LA LETTONIA, SPIEGO IO.

Eh sì, lo scorso agosto io e Francine abbiamo trascorso qualche giorno in Lettonia con Giancarlo e Marisa. Bisogna che racconti anche io, il motivo per cui tutto ciò sia accaduto.

Non so come questa idea sia sorta nella mente imprevedibile di Giancarlo, ma si dà il caso che nostra nuora, la moglie di Fred, sia lettone e ciò deve avere per forza un legame. Può darsi che alcuni di voi si ricorderanno del ricevimento ufficiale del gemellaggio che ha avuto luogo a Calusco, penso tre anni fa, quando Giancarlo mi ha trascinato sul palco davanti a tutti per annunciare insieme che stavamo per fare un gemellaggio con la Lettonia. Evidentemente da allora non era più successo nulla. Questo progetto non era fattibile immediatamente; ci vuole tempo affinché l'idea si facesse strada nelle menti.

Senza aspettare però abbiamo preso in considerazione l'idea di ripristinare gli scambi tra giovani, come si faceva una volta, all'inizio del nostro gemellaggio; e abbiamo immaginato il seguente scenario:
                      un gruppo di giovani decolla con la Ryanair dal' aeroporto di Francoforte,
                      un gruppo di giovani italiani parte lo stesso giorno dall'aeroporto di Orio al Serio,
                      ciascuno con uno o due compagni,
                      si incontrano a Riga, dove  alloggiano insieme in uno degli ostelli della città che sono davvero a buon mercato,
                      mangiano lettone (massimo 5 euro per un pasto completo, bevande incluse),
                      visitano la città, il quartiere Art Nouveau, il quartiere russo, le chiese ortodosse, luterane, anglicane, alcuni dei numerosi musei; passano una giornata al mare, trascorrono un'altra giornata facendo un escursione lungo il fiume Daugava, una terza giornata in una regione dell'entroterra, a Cesis, Bauska o Ergli; si siedono sulle terrazze per ascoltare le diverse orchestre cheti suonano ogni sera; assistono agli spettacoli e partecipano alle feste che vengono organizzate durante tutte l'estate…
Ed ecco una settimana che passa velocemente, anche troppo!

Ma ancora una volta non è successo niente. Sicuramente per mancanza di volontà. Avevo l'impressione che noi sembrassimo un po' fuori di testa con il nostro desiderio di Lettonia, con il desiderio di risvegliare il vecchio gemellaggio sonnolento. Così ho gettato la spugna : « Non ne vale la pena! Meglio rinunciare a questa follia.»

E poi all'improvviso, lo scorso maggio, al termine della riunione del comitato del gemellaggio a Calusco, Giancarlo ha affermato: « Io voglio visitare la Lettonia.»
Preso alla sprovvista, Sono riuscito solo a farfugliare: « Eh? Cosa?»
« Marisa ed io vogliamo vedere Riga.»
« Quando?» Gli ho chiesto.
E Giancarlo, con uno sguardo terribile ha detto: « Quest’ anno. In luglio, siamo liberi.»
Io guardo Francine. Lei non esita un attimo: « D'accordo.»
Ebbene, nel mese di luglio a noi non andava bene perché avevamo previsto di andare a trovare mia sorella in Auvergne, ma abbiamo trovato una data alla fine di agosto. Ed ecco come Giancarlo e Marisa si sono ritrovati là.
Davanti alla cattedrale ortodossa.
Ad un lato del mercato centrale
A bere e mangiare lettone.

Alla fine, non è proprio ciò che vi dovevo raccontare, ma piuttosto come la Lettonia era entrata nella mia vita. Ecco come, in poche parole.
Nel 2006, Fred faceva parte di un gruppo di sassofonisti che ha rappresentato il Lussemburgo al festival internazionale dei sassofonisti a Ljubiana, in Slovenia. Allo stesso tempo Ilze Lejina vi rappresentava la Lettonia con il suo quartetto di ragazze sassofoniste che si chiama « [Next] ». Incontro e colpo di fulmine; Ilze viene a vivere e a lavorare qui; Fred va (per un breve periodo) a vivere e a lavorare là. Fanno due figli e rendono me e Francine dei nonni molto felici. Partiamo alla scoperta della Lettonia e ce ne innamoriamo immediatamente. Adesso ci andiamo ogni anno ed abbiamo sempre la stessa voglia di condividere il nostro amore per quel Paese.

Allora grazie Giancarlo per il tuo momento di follia!




Richard

lunedì 18 novembre 2013

CINQUE GIORNI SPECIALI A RIGA (1° PUNTATA)

Tutto nasce prima che Richard salga sul bus del rientro a Volmerange: “ allora ci vediamo a Riga? “ risposta di Richard:” si io ci vado nel mese di agosto!!”
Iniziano dei contatti per mail; intanto provo a  verificare la disponibilità dei voli: Bergamo – Riga con Ryanair; partenza la domenica e rientro il venerdì! Spesa x 2 … solo pochi euro!! Si può fare!!!! Questa bellissima città è la capitale della Lettonia, una delle 3 repubbliche  adagiate sul Mar Baltico ricche di storia e …. di belle persone!!!

Sento Richard, è entusiasta di volerci far conoscere queste bellezze!! Ci consiglia degli ottimi hotel per il pernottamento!!
Ma come fa Richard ad amare e conoscere così bene questa città e questa nazione? Lasciamo a lui la spiegazione!!
Il 25 agosto si parte, dopo un volo di circa 2 ore si arriva a destinazione; Richard ci accoglie all’aeroporto. E’ una bellissima giornata di sole, anche calda, una graditissima sorpresa!!
Dopo pochi minuti siamo in centro. Lungo il percorso notiamo subito alcune caratteristiche peculiari di questa città: strade ampie, automobilisti rispettosi delle regole stradali, il fiume Daugava, molto ampio, che divide la città, nuovi palazzi con ampi spazi verdi, tutto ordinato e …. pulito!!
In centro troviamo l’albergo e subito ci raggiunge Francine, la compagna di Richard, sempre solare e simpatica!! Sono già le 3 del pomeriggio… che fame!!! Subito facciamo uno spuntino in un locale caratteristico del centro storico di Riga. In questo self service  il menù non lascia scampo!! Ci sono tutte le principali specialità del posto!! Ricordando i casoncelli, ci orientiamo subito su degli ottimi ravioli misti ( ci sono quelli con ripieno di manzo, di pollo, di pecora  ed anche vegetariani).Se ci andate non mancate di assaggiarli si chiamano: PELMENI: Si mangiano conditi da salse varie, alcune piccanti e altre acide o dolciastre!!!
Dopo pranzo un giro generale. Siamo incantati e, guidati da Richard, giriamo col naso all’insù perché ogni angolo riserva piccoli gioielli da scoprire, accompagnati sempre dalle note musicali (di tutti i generi) che risuonano in ogni piazzetta dell’Old Riga per la presenza di numerosi musicisti di strada o gruppi sui piccoli palcoscenici di locali tipici, dove gustiamo un’ ottima birra. E che dire dei parchi? Appena fuori dal nucleo storico ci troviamo immersi in grandi giardini pubblici molto curati, pieni di bambini e passanti, che fanno da cuscino tra il nucleo storico più antico e i quartieri più moderni, che racchiudono altrettanti gioielli architettonici che scopriremo i giorni successivi.

continua...






CINQ JOURNEES EXTRAORDINAIRES A RIGA (1er épisode)

Tout commence juste avant que Richard monte dans le bus du retour vers Volmerange. « Alors, on se voit à Riga ? » Réponse de Richard : « Oui, j’y vais au mois d’août !! »

Commencent des contacts par mail. Entre-temps, je vérifie la disponibilité des vols Bergamo – Riga avec Ryanair. Départ le dimanche et retour le vendredi ! Dépense x 2 … Pas cher !! Ca peut se faire !!!! Cette belle ville est la capitale de la Lettonie, une des trois républiques en bordure de la Mer Baltique, riches d’histoire et…. de belles personnes !!!

Je parle avec Richard ; il est enthousiaste à l’idée de nous faire découvrir ces beautés !!! Il nous conseille d’excellents hôtels à réserver.

Mais comment se fait-il que Richard aime et connaisse si bien cette ville et ce pays ? Laissons-lui l’explication.

Le 25 août, nous partons. Après un vol d’environ 2 heures, nous arrivons à destination. Richard nous accueille à l’aéroport. C’est une très belle journée ensoleillée, chaude même, une surprise très appréciable.

Après quelques minutes, nous voilà au centre-ville. Le long du parcours, nous remarquons tout de suite quelques caractéristiques de cette ville : larges artères, automobilistes respectueux du code de la route, le fleuve Daugava, très large, qui partage la cité en deux, des immeubles neufs avec de vastes espaces verts ; tout est bien ordonné et… propre !!

Au centre nous arrivons à l’hôtel et aussitôt nous rejoint Francine, la compagne de Richard, toujours solaire et sympathique !! Il est déjà 3 heures après-midi… Quelle faim !!! Nous allons tout de suite prendre un en-cas dans un restaurant typique du centre historique de Riga. Dans ce self-service, le menu ne vous laisse pas d’issue !! Il y a toutes les principales spécialités de l’endroit !! Nous rappelant des « casoncelli », nous optons pour les ravioli divers et excellents (il sont fourrés au bœuf, au poulet, à l’agneau mais aussi végétariens) Si vous y allez, ne manquez pas de les goûter ; ils s’appellent PELMENI. Ils se mangent avec diverses sauces, les unes piquantes, les autres acides ou douceâtres !!!

Après le déjeuner, tour général de la ville. Nous sommes enchantés et, guidés par Richard, nous nous baladons l’œil aux aguets parce que chaque coin de rue réserve de petits joyaux à découvrir, accompagné toujours des ambiances musicales (de tous genres) qui résonnent sur chaque place du vieux Riga, de par la présence de nombreux musiciens de rue ou de groupes sur les petites scènes des café typiques où nous savourons une excellente bière.

Et que dire des parcs ? A peine quitté le noyau historique, nous nous trouvons immergés dans de grands jardins publics très soignés, pleins d’enfants et de passants, qui font tampon entre le centre historique ancien et les quartiers plus modernes qui renferment ici et là des joyaux architecturaux que nous découvrirons les jours suivants.

(à suivre)

 

lunedì 11 novembre 2013

A propos de patriotisme


Je regardais cette semaine les nombreuses émissions télévisées consacrées à la Première Guerre Mondiale. C’est qu’en France, mes amis, nous nous préparons déjà à la célébration du centenaire de cette guerre, qui se fera l’année prochaine. On aurait pu fêter le centenaire de 1918, année de la signature de l’armistice et de la fin du calvaire, mais non, ce sera le centenaire de 1914, celui du déclenchement de la boucherie. Ceci sonne comme une promesse de nous la faire revivre dans le détail et je comprends donc que la guerre en soi est plus importante que la paix qui la suit. Les inventeurs de cette commémoration n’ont d’ailleurs rien trouvé de mieux que d’appeler ça le « Centenaire de la Première Guerre Mondiale » ; c’est neutre et ça ne veut surtout rien signifier.
Et moi, ça me pose un problème.

Je crains en effet que cette célébration ne soit qu’un amusement parmi tant d’autres, un produit marketing à forte valeur ajoutée. On nous annonce par exemple déjà une magnifique exposition de photos en 3D inédites, qui va faire le tour de la France : soldats hagards dans la boue des tranchées ou fauchés pendant l’assaut, blessés et mutilés entassés les uns sur les autres, cadavres pourrissant sur la neige maculée… D’un réalisme à couper le souffle ! Et tout le monde pourra en profiter !

Je trouve ça écoeurant. C’est du spectacle, un encouragement au voyeurisme qui tire profit de la soi-disant fascination de l’homme pour la souffrance et la mort, comme un film hollywoodien bien sanguinolent. J’imagine les discours convenus qui accompagneront les manifestations, les cérémonies, les conférences, les débats du centenaire, exaltant toujours les mêmes sentiments banals mais réputés sublimes -combat pour la liberté, élan patriotique, honneur national, gloire, héroïsme, sacrifice (et Dieu avec nous)-, sans que jamais soit désigné vraiment l’ennemi dont tout le monde a le nom au bord des lèvres et qui est en fait l’héroïque patriote d’en face, enfant de Dieu lui aussi. Enfin, on mettra l’horreur de la guerre sur le compte de la folie des hommes -hélas sans remède- et on promettra de ne plus recommencer, à moins bien sûr que la patrie soit à nouveau en danger, en quelque endroit de la planète que ce soit.

Mais à la vérité, il n’y a qu’une bonne manière de célébrer ce centenaire, c’est de dénoncer le nationalisme et le patriotisme comme les causes profondes et ultimes des guerres, parce que ce sont des sentiments fallacieux et nuisibles, profondément imprimés dans les esprits par un insidieux lavage de cerveaux répété de générations en générations. Tout comme les femmes voilées ou excisées imposent elles-mêmes à leurs filles la douloureuse loi qui les soumet à l’homme, les hommes qui ont souffert à la guerre sont parfois les plus acharnés à inculquer à leurs fils les valeurs qui les ont abrutis jusqu’à sublimer la tuerie.

Il faut rendre hommage, oui, mais à ceux qui sont morts comme des cons, avant l’âge, partis à l’assaut sous le feu des mitrailleuses, le sang chargé d’alcool à ne plus être capable de penser. Il faut rendre hommage à ceux qui ont été fusillés pour avoir refusé de sortir de la tranchée, à ceux qui ont été fusillés pour avoir déserté, à ceux qui ont été fusillés pour avoir pactisé avec l’ennemi, à ceux qui se sont laissé mourir de désespoir. Il faut rendre hommage aux pacifistes, aux réfractaires, aux amoureux de la vie… mais ça ne se fait pas, et c’est toujours aux généraux qu’on fait l’honneur de retenir leur nom.

Voici que me revient un souvenir. C’était au milieu des années soixante, j’avais douze ou treize ans. L’association des Infirmiers-Brancardiers-Sauveteurs de Volmerange était jumelée avec une section de la Croix-Rouge de la ville de Flensburg, dans le nord de l’Allemagne. Ma famille et la famille Engel étaient devenues amies. Nous nous recevions mutuellement, même en dehors des manifestations officielles. Cette année-là, Herr Engel avait amené en France son père qui avait fait la Première Guerre Mondiale, et la bataille de Verdun. Nous sommes allés avec lui à Verdun et là, après avoir vu les cimetières immenses, les horribles photos, le macabre ossuaire, les reconstitutions de batailles, le vieux monsieur s’est tout à coup effondré en larmes. Et il a raconté en sanglotant : « Je n’étais jamais revenu ici. Mais je me souviens de tout. Je me vois couché dans la tranchée avec les avions qui passent au-dessus de ma tête, les obus qui tombent tout autour. Je pense à la peur de mourir qui ne m’a pas quitté durant des jours et des jours. Je pense à tous les hommes que j’ai vus mourir autour de moi… »

Si on n’avait pas exalté le nationalisme allemand, ni le patriotisme français, les ouvriers, les paysans, les employés, allemands et français, n’auraient pas quitté leurs foyers pour se crever la panse à coups de baïonnette. Ils auraient dit aux politiciens bourgeois : « Allez donc la faire vous-mêmes, votre guerre ! » Parce que tandis que les pauvres « tombaient au champ d’honneur », la bourgeoisie, qui n’a pas de nationalité, s’est honteusement enrichie sur le dos des morts, d’un côté comme de l’autre, et ça a encore continué après la guerre comme c’était déjà le cas avant la guerre, pendant qu’ils la préparaient.

Pour qu’on n’oublie pas cette horreur, les monuments aux morts ont fleuri sur le territoire de France, la plupart malheureusement guerriers, dédiés au glorieux défenseur de la patrie. Mais il y en a aussi qui détonent, qui émeuvent, qui expriment un véritable désir de paix, comme ces statues de femmes en pleurs, les enfants accrochés à leurs jupes.
Et puis, il y a le monument aux morts de Volmerange qui porte les noms des gars d’ici disparus pendant la guerre de 14-18. Au-dessus d’eux, il n’est pas écrit « Morts pour la France » mais simplement « A nos morts » ; c’est parce qu’en 1914, ici, c’était le Deuxième Reich de Guillaume II, et que ces hommes-là sont donc morts pour l’Allemagne.

Malgré ça, nous n’avons pas tiré la moindre leçon du grand carnage et on a remis ça en 1940. Normal : on avait eu deux décennies pour cultiver le sentiment nationaliste qui, comme chacun se refuse à le voir, ne se construit que sur la haine de l’autre, notre voisin, notre semblable.

 C’est pourquoi je ne me lève plus pour écouter la Marseillaise. C’est pourquoi les drapeaux nationaux ne sont pour moi rien d’autre que des chiffons, comme le leurre qu’on utilise pour attraper les grenouilles. L’Europe avait ça de bon qu’elle devait, au moins dans son espace restreint, effacer les frontières pour nous unir dans une grande fraternité. Mais je constate chaque jour qu’à l’intérieur même de l’Europe nous avons toujours des ennemis : les Roumains qui nous volent, les Espagnols qui produisent leurs tomates au Maroc, les Grecs moribonds qui mendient pour notre fric, les Allemands qui assassinent nos économies, les Anglais qui jouent leur carte personnelle, les Luxembourgois (et d’autres) qui ne vivent bien que parce que leur pays est un paradis fiscal... Nous sommes en guerre perpétuelle, les travailleurs d’ici contre les travailleurs de là-bas. Et les victimes de cette guerre économique, ce sont les travailleurs eux-mêmes, les chômeurs et les 20% de la population qui chez nous vivent désormais sous le seuil de pauvreté. Je ne vous parle même pas des Indiens et des Chinois qui fabriquent nos tablettes numériques et nos téléphones portables, ni des enfants africains qui creusent la terre à la recherche du minerai qui rend cette merveilleuse technologie possible ; je ne vous parlerai pas de ces misérables et insignifiantes créatures qui meurent chaque jour au travail, parce vous savez déjà que ça existe.

Pendant ce temps-là, les bourgeois, d’un bout à l’autre de la planète, sont toujours là, pétant de santé, comme au 19ème siècle (celui que décrivaient Victor Hugo et Charles Dickens), et comme au 20ème (que décrivait Ignazio Silone dans Fontamara), ceux d’aujourd’hui étant les descendants de ceux-là ; ils se gavent, ils engraissent toujours plus, suçant comme des vampires la sueur du travail. Diviser pour régner, diviser pour gagner plus d’argent, c’est la devise du bourgeois. Dans ces conditions, il n’a surtout pas intérêt à ce que l’unité européenne se fasse. Rien n’a changé depuis 1914.

Dans ce contexte, ne trouvez-vous pas que l’idée de patrie n’est qu’un abominable leurre ? Ne pensez-vous pas qu’il serait temps d’éradiquer de nos esprits cette connerie qui risque de nous dresser demain, encore une fois, les uns contre les autres ? Faire reculer le sentiment national, voilà aussi le sens d’un jumelage, non ?

Finalement, je suis allé sur le site du centenaire de la guerre ( http://centenaire.org/fr ) et je dois reconnaître qu’il y a des choses intéressantes. Par exemple, ceci : http://centenaire.org/fr/espace-scientifique/pays-belligerants/les-italiens-en-france-au-prisme-de-lengagement-volontaire-les

Voilà. J’espère des réactions.

Maintenant, je vais me préparer pour assister à la cérémonie de commémoration du 11 novembre 1918, jour de l’armistice. Tandis que résonnera la Marseillaise, je penserai à mes petites-filles qui auront peut-être la chance de vivre dans une Europe sans nations… en attendant le monde !

Richard Hormain

PS : Pour revenir sur les articles précédents, concernant l’immigration, vous pouvez regarder avec profit ce reportage ( http://pluzz.francetv.fr/videos/13h15_le_samedi.html ). Ca ne dure que 35 minutes ; n’en perdez pas une miette !

domenica 3 novembre 2013

Présence italienne en Lorraine (6). TEMOIGNAGES

En guise de prolongement à mon article précédent sur l’immigration, je voudrais vous faire connaître un double témoignage que je ne relis jamais sans en être à nouveau ému, d'une part parce que c’est moi qui l’ai recueilli lorsque nous avons préparé le livre « L’Annuaire 2000 de Volmerange » et que je revois encore les bons visages des personnes qui se confiaient à moi, d'autre part parce qu’il me rappelle des choses assez semblables que dans ma famille aussi on a vécues.

César était né en 1915, dans la province du Lazio. C’était un petit homme noueux, sobre, toujours cordial et souriant, qu'on voyait à toutes les fêtes du village, qui aimait bien discuter avec les gens. Voici ce qu’il nous a raconté.

« Ma famille était pauvre. J’aidais mes parents en gardant les moutons et les vaches, en faisant des fromages et toutes sortes de travaux. On n’avait pas le temps, ni l’argent pour aller à l’école. A quatorze ans, j’étais déjà ouvrier agricole. Je me rappelle qu’on était parfois trente sur une ligne, à bêcher d’immenses champs. Mon père est mort quand j’avais dix-neuf ans et demi. A peine marié, en 1937, j’ai été appelé pour faire trois mois et quatorze jours de service militaire. En plus du travail de la terre, je grimpais dans la montagne où je faisais des fagots. Notre vie, c’était seulement du travail. Après, il n’y a même plus eu de travail. Alors j’ai fait dix-sept kilomètres chaque jour pendant neuf mois pour essayer d’en trouver. Sans résultat.

Puis, le 24 février 1939, j’ai été mobilisé et on m’a envoyé en Abyssinie (l’Ethiopie), en plein désert, où je devais garder, installer et réparer des lignes téléphoniques. Je travaillais avec une équipe d’autochtones qui ne m’inspiraient pas vraiment confiance. En plus, il y avait les animaux sauvages qu’on pouvait rencontrer n’importe où, les rebelles qui tendaient des guets-apens et les anglais qui nous bombardaient. J’ai eu peur bien plus d’une fois. J’ai même été tenu pour mort et j’ai eu plusieurs fois la malaria. La famine régnait déjà là-bas et quand je vois des reportages à la télévision avec des enfants qui meurent de faim, je ne peux plus le supporter. J’étais dans un régiment royal, mais il y avait aussi les régiments de Mussolini qui avaient tous les droits et qui faisaient régner la peur. Nous, on manquait presque de tout. Beaucoup de soldats désertaient. Le 21 mars 1941, je me suis sauvé d’un bombardement anglais, avec trois autres, à dos de dromadaire. Mais le 4 avril, l’armée italienne a déposé les armes et nous avons été faits prisonniers.

Les anglais nous ont parqués, puis envoyés dans un camp en Egypte. Ils nous avaient pris toutes nos affaires. J’avais tout de même pu cacher sur moi dix-sept mille lires emballées dans un préservatif et dissimulées dans un savon. Le pire, c’est qu’on n’avait rien à manger. J’ai découpé des os trouvés sur une décharge pour en manger la moelle, j’ai avalé du plâtre et ça m’a détraqué tout l’intérieur. La première soupe qu’on nous a servie, je l’ai avalée d’un trait dans une boîte à sardines ramassée dans le sable. Le 28 octobre 1941, on nous a embarqués pour l’Inde, par le canal de Suez. Là-bas, on était des milliers dans le même camp. C’est là, grâce à un instituteur, prisonnier comme moi, que j’ai appris à lire et à écrire en trois mois et demi. Je révisais même la nuit, sous la couverture. Et j’ai pu enfin écrire moi-même ma première lettre à ma femme qui l’a reçue six mois après. Sa réponse, je l’ai eue aussi six mois après.

Le 4 décembre 1943, on nous a expédiés en Australie où ils avaient besoin de main d’œuvre dans les fermes. Comme j’en avais assez de devoir trouver des cachettes pour mes dix-sept mille lires, je les ai laissées à la consigne. Là-bas, on portait des costumes rouges. On ne pouvait aller nulle part : on était haïs, nous les Italiens. Je travaillais dans une petite ferme qui élevait plus d’une centaine de milliers de moutons. J’étais affecté à la traite, je faisais la cuisine pour les autres prisonniers et je m’occupais du potager. J’obtenais d’ailleurs des fruits et des légumes extraordinaires (pour un Australien). Après la sécheresse qui a décimé les troupeaux, j’ai fini jardinier chez les officiers et j’ai eu la vie un peu meilleure.

Le 28 décembre 1946, j’ai enfin été rapatrié et je suis arrivé en Italie le 21 janvier 1947, avec mes dix-sept mille lires. La guerre était finie depuis un an. En Italie, c’était la misère mais je me suis remis au travail comme ouvrier agricole. J’ai cueilli des olives, bêché, fait le charbonnier et des tas d’autres boulots. Et puis un jour le parrain de mon fils Pierre m’a demandé de venir avec lui en France. Je me suis décidé à partir en août 1948.

Avec treize compagnons, j’ai pris le train de Rome vers Turin, puis Modane. Nous sommes descendus avant la frontière et partis à pied par la montagne, sans passeports, mais avec un guide qui nous a abandonnés et volé cinquante deux mille lires. Heureusement, nous avons rencontré une bergère savoyarde qui nous a indiqué le point de passage. Ensuite, un gendarme français nous a envoyés en train vers Chambéry. Il y avait là un camp d’immigrés où les patrons venaient choisir et embaucher des ouvriers. Moi, j’ai continué jusqu’à Lyon où le parrain de Pierre m’a hébergé. Après une douzaine de jours, je suis remonté vers la Moselle et je suis arrivé à Rosselange où j’ai été embauché au laminoir. Je suis devenu deuxième chauffeur au four : une demi-heure de travail, une demi-heure de repos, tellement ce poste était dur. Je gagnais quarante francs par mois et j’en envoyais vingt à ma femme. Je suis resté là, seul, pendant trois ans et demi.

Le 1er janvier 1951, j’ai été embauché à la mine Kraemer, à Volmerange. (J’y aurai travaillé pendant vingt ans et eu deux accidents.) En 1953, l’année de la grande grève, ma famille est venue me rejoindre avec un visa touristique. J’ai dû me battre pour trouver une maison, parce qu’il fallait ça pour que ma femme puisse rester ici avec nos deux enfants.

Voilà ma vie. Finalement, j’ai aimé voyager et découvrir le monde, même si les circonstances n’étaient pas faciles. Je suis allé là où je pouvais gagner mon pain et c’est pourquoi j’ai du respect pour ce pays. Finalement, je trouve que j’ai eu beaucoup de chance parce que je suis encore là, à vous parler. Tout ça m’a appris aussi qu’on peut et qu’on doit toujours aider les autres. »

 Et voici ce qu’ajoutait sa femme, Crocifissa :

« Quand nous nous sommes mariés, nous étions vraiment pauvres. Nous n’avions pas de quoi acheter nos alliances. Je marchais quinze kilomètres pour aller vendre à la ville les fagots que César faisait. Pierre est né un soir, après que j’avais fait cet aller-retour. Quand mon mari a été pris pour la guerre, Pierre avait à peine six mois. Quand il est revenu, il avait neuf ans. Pendant tout ce temps, j’ai travaillé avec mes parents. Douze ou treize heures par jour, c’était dur. Je faisais les fagots, je les vendais pour acheter du sel, de la farine ; je ramassais les olives, je fanais, je battais le blé, je bêchais chez les patrons. A midi, on mangeait par terre. Mes parents avaient une seule poule ; on l’attachait au bout d’une ficelle pour qu’elle n’aille pas pondre chez les voisins. Une fois, j’ai fait soixante kilomètres par-dessus les montagnes pour rapporter sur ma tête un sac de betteraves rouges. Je travaillais aussi à la construction des maisons : j’apportais sur les chantiers des pierres de quarante à soixante kilogrammes, posées sur ma tête. Quand Pierre a été malade, je l’ai porté à l’hôpital à pied sur dix-huit kilomètres, et chaque jour, je faisais l’aller-retour pour le voir.

En 1942, nous avons reçu une lettre de César, mais nous pensions presque que c’était une mauvaise farce et qu’en réalité il était mort. Et quand il est rentré finalement, il était tellement maigre et si noir de peau que personne ne l’a reconnu tout de suite. Il ne comprenait même plus le dialecte de notre pays. Mais il avait apporté deux alliances qu’il avait achetées en Australie, en vendant les cinq cigarettes auxquelles il avait droit chaque jour. Mais il n’est pas resté longtemps et j’ai dû attendre encore avant de le rejoindre en France.

Et enfin, j’étais avec mon mari et mes enfants, et on avait un logement (au bloc), un jardin, des poules, des canards, des lapins, et même deux cochons ; c’était monsieur Berton qui les tuait. Au début, je faisais la lessive à la main, puis j’ai eu une machine et c’était bien. J’aimais beaucoup tricoter et coudre. Je faisais toutes les pâtes moi-même. Je crois que j’étais fine cuisinière aussi. J’avais été triste de quitter l’Italie, et surtout mon village, mais après avoir tant souffert, j’ai eu l’impression que j’arrivais un peu au paradis. »